Capitolo 1
Quando ripenso alla nostra precipitosa partenza, alla traversata da Civitavecchia a Cagliari, i ricordi si mischiano alla rinfusa nella mia mente. Il mare era calmo e soffice come il sonno. In tutto il firmamento, le stelle palpitavano sopra di noi, lanciando un raggio luminoso attraverso le onde. S. e io ci lasciavamo portare dalla nave che avanzava sulla distesa d’acqua. Pensavo intensamente a mia madre che aveva appena subito l’ablazione del seno destro. La sua forza di nutrice ne usciva colpita, ridotta, e non ho mai realizzato con la stessa lucidità di quel momento il senso di privazione, saturo di spavento, che a lungo avrebbe incupito la mia vita. L’avevo vista prima di partire, non c’erano metastasi e mi ero aggrappata alla speranza di una completa guarigione.
In quella partenza percepivo una sorta di corsa a ritroso. Come se per vivere fosse indispensabile essere completamente assorbita da una terra, ed essere così salva. Fortuna volle che avessimo trovato casa a Cagliari senza bisogno di recarci sul posto. A Colonia le pizzerie traboccavano di lavoratori immigrati, per lo più sardi. E il miracolo si produsse. Uno di loro era proprietario di un appartamento ammobiliato, prossimo al centro della parte nuova della città. L’uomo accettò subito di affittarcelo, a condizione che egli potesse occuparlo tutta l’estate… Era un appartamento decisamente brutto, tappezzato con una carta da parati a righe scure e chiare. Nelle due stanze da letto i mobili erano di colore cupo e di foggia antica. Era un po’ sinistro, ma andava bene. Il salotto dava sulla strada ed era conforme alle aspettative di una casa moderna degli anni Sessanta. Dal lato della cucina era più luminoso e mi rivedo aprire svogliatamente le porte-finestre che affacciavano su un terreno incolto, disseminato di erba rada, incartapecorito dal sole e dai sassi; qua e là buste di plastica, cocci di bottiglie e pecore che vagavano sotto il cielo reso opaco dallo scirocco. Da quell’alito caldo si sentiva che la Tunisia era lì, dall’altro lato del mare. L’aria era appiccicosa, la luce insopportabile. Il mio smarrimento totale.
Il palazzo a quattro piani era sul limitare di un quartiere dormitorio desertico, chiamato CEP. La condizione delle famiglie difficile, talvolta tragica. Ogni giorno, sotto il porticato, si potevano vedere gruppi di ragazzi, in silenzio, con lo sguardo perso, come alla deriva… All’inizio, solo la presenza di Pascal era riuscita a darmi sollievo. Trascorreva le vacanze presso amici sardi, conosciuti a Colonia, che avevamo in comune e per tutta la giornata del nostro arrivo si era affannato ad organizzare una festa per i miei ventinove anni… Era proprio una sorpresa. Il sapore gustoso della cena, la calorosa accoglienza dei nostri anfitrioni, l’intensità dell’allegria generale che riempiva la loro casa, attenuava la delusione. Così, la prima sera a Cagliari era trascorsa nel buonumore, nonostante la ruggine che correva tra Pascal e la coppia di amici tedeschi che ci avevano accompagnato in macchina fino in Sardegna. Certo, orfani del loro territorio, Uschi e Fritz non si comportavano propriamente come avremmo auspicato. Facevano gruppo a sé, ma che importanza aveva! La loro semplice presenza era piacevole e ciò che contava era innanzitutto condividere con loro uno spicchio di vita nuova.
Invidiavo a Pascal la sua spensieratezza, la sua leggerezza. Appena sveglio, scappava di casa, col suo sorriso canzonatorio che sconcertava la nostra seriosità generazionale. Risata contagiosa, insolente, la sua, che mi faceva venir voglia di raggiungerlo sulle strade deserte, martoriate dal sole in cui si piazzava per fare l’autostop, poiché adorava il fascino tipicamente africano della campagna sarda con le sue siepi di fichi d’india, i suoi sentieri bianchi e polverosi, delimitati da muretti a secco. E per lui era di scarsa importanza arrivare a destinazione. Gli appuntamenti non erano nelle sue corde. Tale plateale libertà lo rendeva spesso sospetto agli occhi dei nostri amici, ivi compresi i sardi, difficile da controllare. Esposti agli stessi fastidi provocati dalle giornate calde e ventose, Fritz e la mia amica Uschi diventavano insofferenti, Pascal non perdeva la sua tranquillità. Ne approfittava per andare a gironzolare nel quartiere della Marina, si deliziava degli odori delle sardine fritte nell’olio d’oliva, delle bancarelle di verdura e di frutta: zucchine e pomodori verdi, poi angurie dalla polpa rosa. Prendeva la via delle More di cui gli piaceva molto il nome magico, evocatore di un passato moresco, fino alla chiesa del San Sepolcro. Da lì, si arrampicava sulle ripide scale che portavano alla via pedonale con quell’ansia febbrile di raggiungere il bastione San Remy, a strapiombo sulla città, con vista sul porto e le navi della Tirrenia alla fonda. Di madre francese e padre tedesco, Pascal condivideva il mio desiderio di altrove. Amava prendere il largo per la libertà che questo gli dava.
È difficile rituffarsi nello stato di esaltazione in cui all’epoca mi trovavo. Ne conservo il ricordo di un’ebbrezza fusionale. Per la prima volta mi sembrava di aver raggiunto l’amore per una terra. Una terra che penetravo dall’interno. Non ero più nient’altro che tenerezza, e l’esistenza, in tutte le sue forme, si riversava in me. Mi confondevo con l’ampia baia di Chia, protetta dalle sue dune bionde e sensuali, raggomitolata nel sonno della vita o abbandonata allo stordimento di un languore che trascinava con sé la mia fantasia errabonda, sregolata, chimerica, in balia dell’avventura. Bevevo l’aspra bellezza dell’isola. Mi lasciavo voluttuosamente avvolgere dagli elementi. Il sole mi appagava con i suoi raggi luminosi, la mia pelle, privata di vestiti, si abbronzava, respirava. Nell’indolenza, sbocciavo. Non riuscivo a credere di sentirmi così bene. Ma ero veramente io? Questa nuova migrazione apriva una breccia che mi irrorava, mi dissolveva, faceva di me un essere erratico in stato di quiete, sospeso nel vuoto con una segreta esultanza, trascinato nell’altalena creata da questa vertiginosa cesura, da questa nascita-morte.
Nella tarda mattinata S. e io andavamo a prendere un cappuccino al Caffè Genovese, in cui un cereo cameriere si atteggiava spesso a maggiordomo. Poi imboccavamo le sinuose stradine che portavano al piccolo bastione Santa Croce. A sinistra, si vede il mare, accarezzato dall’alito del vento; a destra, superata la Chiesa di San Giuseppe, c’è l’antico ghetto ebraico e, sotto i contrafforti di roccia, in primo piano, tetti malridotti di tegole saracene. E poi, dietro la fila delle case votate all’abbandono che, lentamente, cadevano in rovina, cupole che il sole indorava come dolci all’uovo. Ovunque il nostro sguardo si posasse, niente verde, ma luce. Soprattutto luce. Impossibile parlare di Cagliari senza evocare l’irradiamento blu del cielo che risvegliava in me una sete di assoluto, una gravità infinitamente malinconica. Sin dal principio ho percepito la duplice natura di questa città fortificata sbucata dall’azzurro, nello stesso tempo vicinissima e inafferrabile dove l’io non è più io ma un altro. Sospesa fra cielo e terra, era totalmente partecipe dei colori mutevoli del Mediterraneo, rosa al mattino e rosa di sera, abbagliante e dorata in pieno mezzogiorno, e nera come la notte dei tempi, quando l’oscurità è profonda. Avevo la sensazione di essere giunta a destinazione, al punto d’arrivo di lunghe deviazioni e numerosi viaggi.
Pieni di meraviglia dinanzi all’eleganza dei balconi in ferro battuto e ai tetti a terrazza, S. e io non smettevamo di camminare col naso per aria in una calura lacerata dalla cacofonia dei clacson, di arrampicarci alla conquista del Castello il cui ordito consisteva in un groviglio di viuzze strette, di strade con forte pendenza, quasi a proteggersi dal sole e dagli invasori. Lassù le tende erano tirate, le vie deserte. Non c’erano fiori sui davanzali né rampicanti sulle facciate screpolate. Nulla che potesse mitigare l’austerità di quelle nobili dimore spagnole, mal in arnese. C’erano ancora degli ingressi di scale buie e maleodoranti, abitazioni scavate nella roccia, umide, mal arieggiate, la cui sola apertura era la porta e che, fino a poco tempo prima erano servite da depositi e rivendite, o, in tempi andati, da scuderie. Le persone che ci vivevano erano ritirate in fondo a se stesse, tristi e poco socievoli. Un po’ di gaiezza la si trovava soprattutto nelle strade dei negozi, all’ora della passeggiata. La singolare bellezza dei giovani che facevano crocchio in via Garibaldi, i loro incarnati olivastri, le pelli abbronzate dal sole, i grandi occhi dal taglio a mandorla, vellutati, ombreggiati da lunghe ciglia ricurve e sormontati da folte sopracciglia ben delineate, la lucentezza dei capelli corvini suscitavano i ricordi delle brune divinità di Cartagine. In un amalgama puro di rosa e di grigio, si stagliava una città mitica, creata dal mio bisogno di fuggire e di liberarmi.
Così, i primi mesi a Cagliari, con tutto ciò che avevano in sé di speranza e di fiducia cieca nell’ignoto, propiziarono il riaffiorare, sotto la spinta di circostanze occasionali, della nostra indole composita. L’essenziale era innanzitutto adattarsi. Lingua, cibo e persino le regole dell’amicizia, tutto andava imparato di nuovo. Non trovavamo le verdure e i condimenti ai quali eravamo abituati. Dovevamo accontentarci di pietanze fatte di foglie di ortaggi crude o cotte, condite con olio d’oliva, di piatti di carne faticosa da masticare. Ormai, il piatto forte era la pasta che potevamo preparare in fretta e in tutti i modi. Eravamo disorientati dal numero di piccole botteghe in cui occorreva sempre far la fila per avere gli approvvigionamenti quotidiani. La gente non dava segni di fretta, chiacchierava, inducendoci a valutare tutto col metro dell’eternità. Aleggiava sempre una sorta di respiro di languore che invitava all’ozio, predisponendoci ad un parziale rinnovamento di noi stessi. Stranieri, disponibili, senza lavoro, percorrevamo a caso le vie della città per ingannare il destino, andando da vagabondaggi a incontri, di sorpresa in sorpresa. Il piacere di ciondolare era simile al movimento dei flutti del mare e delle sue onde di luce. Ci trasportava. Errare era esistere. Errare era vivere.