Sardegna Madre 00

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Prefazione

“La vera giustizia e la vera tolleranza, l’universalità e la comunione non postulano la negazione delle differenze fra gli uomini bensì il loro riconoscimento.”

(A. Memmi)

 

La parola “esilio” evoca per lo più immagini di miseria, di guerra, di persecuzioni politiche o religiose, più raramente l’emigrazione volontaria, nutrita da un amore dell’altrove, un bisogno di apertura sull’ignoto, l’istanza di misurarsi con l’estraneità. Per me, la scoperta della Sardegna fu un vero choc emotivo. Tutto nell’isola mi ricordava un passato lontano: gli occhi scuri, i capelli neri e lucenti, il passo sicuro, fiero delle donne, la generosità dell’accoglienza. E avevo buone ragioni di pensare che avrei potuto trascorrervi giorni felici con S; destino volle, però, che la mia nuova migrazione – otto anni erano trascorsi dal momento della mia partenza dalla Francia per la Germania – coincidesse con la sensazione di vuoto, conseguenza della mancanza di prospettive e di certezze che gravava allora sulla realtà sarda, e con l’operazione al seno di mia madre.

In quest’esilio non c’era fine, c’erano però delle cause che mi spingevano a passare da un mondo all’altro in cui m’imbattevo nei miei ricordi e facevo affiorare i miei fantasmi. Scegliere di vivere altrove comportava non solo imparare la lingua dell’Altro ma forgiare la propria identità nell’assenza di paese natale e della famiglia, nel vuoto totale di modelli, rinascere a se stessi. Ciò che ho appreso di essenziale, quel che ho scoperto d’importante in quei cinque anni, l’ho vissuto innanzitutto nel contatto con gli altri, nel susseguirsi di una serie di esperienze di differenza e di condivisione, che alimentavano la mia passione per l’isola, il mio desiderio di entrare in comunione con essa.

Ho aspettato vent’anni prima di dar corpo a questo testo, la cui scrittura mi è costata molto per via dei dolorosi episodi che mi costringeva a rivangare. Un testo di confessioni in cui si mischiano le impressioni personali, la riflessione, i racconti sulla Sardegna così come ne sono venuta a conoscenza negli anni 80.

Mi si muoverà sicuramente il rimprovero della soggettività di giudizio nei confronti dei numerosi giovani in cui, nel mio cammino, mi sono imbattuta e che volevano farmi accettare la loro peculiare immagine, i loro modi di essere, il loro esclusivo cameratismo, volendo che fossi come loro, in tutto e per tutto simile a loro. Il problema, in realtà, è che a Cagliari la diversità è insostenibile e il minimo scarto veniva considerato come una frattura, una prova di inimicizia da parte mia. Ma, come afferma con ragione Claudio Magris, “senza negazione, non esiste amore”. Al punto che, dopo otto anni di separazione, senza esservi costretta, ho deciso di tornare a vivere in Sardegna, di scrivere su di essa e di spezzare l’incantesimo. Non ho minimamente la pretesa di un’esaustiva conoscenza dell’isola, essa mi ha fatto capire che alla cognizione dell’Altro non si approda mai. Così ho preso strade che non conducono da nessuna parte per dar voce a questa pena d’amore, sbrogliando lentamente l’intrico di fili che mi univa nello stesso tempo a mia madre e alla Sardegna, al loro infausto destino, in un miscuglio di reale e d’immaginario, l’unico in grado di creare un’oscillazione fra l’isola e l’Altro, fra l’Altro e me stessa.

 

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